venerdì 25 marzo 2016

IL MISTERO DELLA MORTE DI CANGRANDE DELLA SCALA: VELENO O MORTE NATURALE

Cangrande della Scala
Questa è una storia di un probabile delitto, avvenuto all'incirca settecento anni fa, che è ancora avvolto nel mistero e che ha come protagonista uno dei più grandi condottieri del XIV secolo, vale a dire Cangrande della Scala. Can Francesco della Scala nacque a Verona il 9 marzo del 1291 terzogenito del signore della città Alberto I della Scala e della moglie Verde di Salizzole, fin da piccolo fu attratto dal mestiere delle armi, seguito dagli attenti occhi del padre che purtroppo morì nel 1301 quando Francesco era ancora bambino, successivamente fu affidato al fratello maggiore Bartolomeo; anche quest'ultimo morì prematuramente nel 1304 e così il futuro condottiero fu affidato al secondogenito Albonio, persona di grande saggezza e dedito più alla diplomazia che all'arte della guerra. Nel 1308 Cangrande divenne il comandante generale dell'esercito di Verona e da questo punto in poi ci fu solo una inarrestabile ascesa, non solo dal punto di vista del comando militare ma anche da signore di Verona in reggenza condivisa con il fratello maggiore tanto che fu anche mecenate dell'amico
Dante Alighieri. Partecipò a molte battaglie contro altre città da Parma a Padova, da Brescia a Genova, da Modena a Mantova e così come altre, fu un condottiero forte e vigoroso di grande carisma vincente sul campo di battaglia. Può un uomo così trovare la morte in circostanze misteriose?
La storia ufficiale parla della sua morte avvenuta il 22 luglio 1329 come causata da eventi naturali, si dice che in quella estate e precisamente il 19 luglio dopo essere entrato trionfante a Treviso e dopo una lunga e faticosa cavalcata si fermò nei pressi della fonte di Santi Quaranta per dissetarsi, dove contrasse forse da quell'acqua la dissenteria. Ma è possibile che un condottiero e signore come lui potesse incautamente bere da una fonte senza essere sicuro della natura dell'acqua? Già le cronache dell'epoca riportavano il fatto alquanto strano, ossia che un uomo in perfetta salute come lui potesse morire così in poco tempo per aver bevuto dell'acqua forse malsana, ed infatti cominciarono a echeggiare voci su un probabile avvelenamento.
I resti del condottiero
Nel 2004 il corpo del condottiero fu riesumato e su esso furono svolti degli esami approfonditi come TAC e radiografia digitale dall'istituto di patologia dell'università di Pisa, guidati dal professor Gino Fornaciari che hanno portato alla scoperta di un grande quantitativo nei tessuti di Digitalis Purpurea, una pianta che ha delle qualità per curare malattie cardiache, ma se presa in quantità eccessive può risultare altamente velenosa e addirittura mortale. Dose sbagliata o avvelenamento volontario? Successivamente uno studio palinologico condotto dalla dott.ssa Silvia Marvelli ed il dott. Marco Marchesini del laboratorio di palinologia di San Giovanni in Persiceto, fece rinvenire nei resti dell'intestino una grande quantità di polline di camomilla e gelso nero, mescolati proprio a resti di digitalis; deducendo quindi che durante i suoi ultimi tre giorni di vita e di agonia caratterizzati da febbre alta, vomito e diarrea, qualcuno gli avesse somministrato un infuso di camomilla mescolato con la potente miscela mortale. Qualcuno poteva meditare di togliere di mezzo un potente come Cangrande? Stando quindi agli esami della nostra era altamente tecnologica, sembra prendere piede la teoria dell'avvelenamento; anche perché è presente un piccolo particolare: nel XIV secolo non si sapeva che la Digitalis Purpurea aveva delle proprietà curative, mentre era noto che la pianta era un potente veleno, quindi seguendo la logica qualcuno poteva aver preparato un infuso o una miscela per avvelenare premeditatamente e volontariamente il condottiero.
Digitalis Purpurea
Da precisare è il fatto che Cangrande stava espandendo i suoi territori ed il suo già grande potere, quindi molti stati limitrofi temendo di essere conquistati e vedendo di cattivo occhio il condottiero, potrebbero aver architettato l'omicidio magari con alleanze segrete. Lo stesso nipote di Francesco, Mastino che gli successe sul trono di Verona dopo la morte, fu additato come possibile mandante, perché bramoso di conquistare il potere dello zio. Un altro protagonista di questa storia secondo le cronache del tempo, fu incolpato di far parte del complotto per eliminare il signore di Verona: il medico personale. Si dice che dopo la morte del condottiero sia stato incolpato, processato e giustiziato per aver tramato contro ed avvelenato Cangrande.
Ad oggi quindi sembrerebbe che il giallo che avvolge questa vicenda sia stato svelato, ma come tutte le storie accompagnate da un alone di mistero, talvolta ci piace che esse rimangano tali, che continuino a attrarre proprio perché alimentino l'immaginario collettivo, considerandole come storie di altri tempi e che contribuiscano a tenere vivo nel corso dei secoli il mito di certi personaggi.
Spada del condottiero
Monumento equestre  di Cangrande della Scala

martedì 19 gennaio 2016

IL MISTERO DI GISELLA ORRU'

Gisella Orrù
Questo è un omicidio che a distanza di ventisette anni non ha trovato ne un colpevole certo, ne risposte a causa dei numerosi tentativi di depistaggio, un omicidio ancora oggi avvolto nel mistero che è custodito in una terra bellissima: la Sardegna.
Siamo a Carbonia, è il 28 giugno 1989 quando verso mezzanotte una signora anziana aspetta sul terrazzo di casa ansiosa ed angosciata il rientro di sua nipote di sedici anni, che stranamente è in ritardo. Quella donna si chiama Luigina soprannominata Gina e le sue nipoti abitano con lei. Luigina sta aspettando Gisella la nipote più piccola, che è una ragazza per bene, seria e che non si trattiene mai fino a tardi fuori di casa. Ad un tratto la Gina vede i fari di un auto che si sta avvicinando, è il vicino di casa Salvatore Pirosu che sta rientrando. I due si conoscono bene, oltre che essere vicini sono anche amici, Luigina chiede a Salvatore se ha visto la nipote Gisella, ma l'uomo le risponde di no. Salvatore vedendo la signora molto preoccupata, si offre volontario per andarla a cercare entrambi con la propria auto. I due cominciano a girare e cercare la ragazza, recandosi anche a casa del figlio di Luigina ovvero il padre di Gisella, chiedendo se la ragazza si fosse fatta vedere, ma anche lui non l'ha vista. Il giorno seguente la nonna di Gisella riceve una strana telefonata, effettuata da una donna la quale dice a Luigina che Gisella avrebbe passato le vacanze con lei e la propria famiglia.
E' il 13 luglio, sono trascorsi 10 giorni dalla scomparsa della ragazza e nessuno sembra sapere niente, la famiglia sta vivendo momenti di terrore, quando alla caserma dei carabinieri di Carbonia arriva un'altra telefonata. La voce di chi parla è femminile e dice dove poter trovare il cadavere della povera ragazza; in località San Giovanni Suergiù c'è un pozzo e lì sul fondo giace il corpo nudo della giovane.
Operazioni di recupero del corpo di Gisella
Immediatamente i carabinieri raggiungono il luogo indicato, ma la scarsa quantità di luce impedisce di vedere il fondo. Decidono quindi di far intervenire la squadra dei sommozzatori, che si cala nelle profondità del pozzo e dopo poco recuperano un corpo femminile nudo, in parte decomposto. Successivamente un orologio ed una catenina d'oro ritrovate sul cadavere, aiutano ad identificare la vittima: Gisella Orrù
La voce anonima della telefonata aveva ragione.
Ma chi poteva sapere? Chi era?
Dopo un esame tecnico il cadavere presenta delle ferite profonde alla testa, provocate probabilmente con uno strumento tagliente e lungo, inoltre la ragazza avrebbe subito violenza sessuale. Scattano immediatamente le indagini per omicidio.
Un testimone sentito dagli inquirenti, fa riferimento ad una coppia di persone, un uomo e una donna che a bordo di una vespa bianca si fermano nei pressi del pozzo a guardare con insistenza sul fondo.
Chi indaga, cerca di far luce sulla vita di Gisella seguendo ogni genere di pista. Si dice in giro che la ragazza avesse cominciato a praticare gente poco raccomandabile, invischiata in un giro di sesso, prostituzione minorile e droga, voci peraltro confermate da lettere anonime recapitate agli stessi inquirenti. Poteva in qualche modo Gisella essere finita nel perverso meccanismo e esserne rimasta vittima?
Le indagini volte a seguire ogni tipo di direzione, vengono indirizzate in una in particolare, grazie all'ennesima telefonata anonima eseguita sempre da una donna, la quale riferisce che il giorno della scomparsa Gisella è stata vista salire su una auto, una fiat 126 bianca. Gli inquirenti esaminano tutte le auto dello stesso tipo della zona e si accorgono che una auto del genere la possiede anche Salvatore Pirosu, vicino di casa della signora Luigina nonna della ragazza. Gina spiega agli investigatori che le sue due nipoti avevano una grande confidenza con Pirosu., tanto da chiamarlo zio Tore. Ma chi è veramente Salvatore Pirosu? Salvatore è un uomo di quarant'anni che vive con la madre, per mantenersi svolge qualche lavoretto, ma i soldi arrivano più che altro dalla madre. Ha un vizio: le prostitute. Gli investigatori scavando nel suo passato scoprono che nel 1969 Pirosu è stato condannato per una aggressione con lesioni ad una prostituta. Salvatore quindi viene ascoltato dai carabinieri i quali accorgendosi dell'insicurezza dell'uomo su un suo possibile alibi, lo portano in una condizione critica e lo fanno crollare; Pirosu confessa l'omicidio di Gisella. Salvatore però precisa di non essere l'esecutore materiale del delitto, ma di essere stato in compagnia del vero assassino: Licurgo Floris.
Il pozzo
L'uomo comincia a raccontare quello che secondo la sua versione è successo: la sera del 28 giugno lui e Floris sono nella 126 insieme e avvicinano Gisella Orru, Pirosu convince la ragazza a salire sull'auto con loro. Dopo di che si dirigono verso il luogo dove Floris ha parcheggiato la sua macchina rossa, sul posto ci sono anche una ragazza di circa vent'anni che conosce Gisella, di nome Gianna Pau che fa la prostituta e un ragazzo tossicodipendente di nome Gianpaolo Pintus. Tutti insieme raggiungono un boschetto poco distante dal mare, dove parcheggiate le auto Gisella, Floris e Pintus scendono da quella rossa e si addentrano a piedi nel bosco, per consumare dei rapporti sessuali in tre, mentre Pirosu e la Pau rimangono a bordo della 126. Ad un tratto Salvatore vede uscire dalla vegetazione Gisella che corre nuda, urlando inseguita dai due uomini, per poi rientrare da un altro lato del bosco sempre inseguita. Dopo qualche minuto Licurgo esce dalla macchia dirigendosi verso la 126 di Salvatore, dicendogli di averla combinata grossa, gli dice che in un momento di buio mentale ha colpito e ucciso la povera ragazza e che ora bisognava far sparire il corpo. A quel punto Pirosu e Floris avvolgono il cadavere in una coperta e lo caricano sull'auto rossa, dirigendosi in aperta campagna, arrivando fino in località San Giovanni Suergiù dove avrebbero gettato il corpo nel pozzo. Gli inquirenti eliminano dal registro degli indagati Pintus e la Pau, mentre arrestano Pirosu reo confesso e Floris. Dopo il processo svolto in tutti i tre gradi di giudizio, gli imputati vengono dichiarati colpevoli e condannati rispettivamente a ventiquattro anni il primo e trenta anni il secondo. Ma una ragazza seria come Gisella come avrebbe potuto andare a consumare un rapporto sessuale a tre con dei perfetti sconosciuti? Come poteva frequentare prostitute e tossicodipendenti? Sono domande che tutt'oggi non hanno risposta. Licurgo Floris che di questo omicidio si è sempre detto innocente e che ha sempre dichiarato fortemente di essere stato messo di mezzo, nel 2007 si suicida in carcere impiccandosi nella sua cella; sembra infatti che Pirosu avesse dei rancori verso Licurgo per dei vecchi attriti tra i due. Ma un altro fatto raccapricciante e che lascia molti lati oscuri su questo delitto è la scomparsa di Salvatore Pirosu, difatti dopo poco la sua scarcerazione avvenuta nel 2008 è scomparso nel nulla. Forse unico custode dei segreti che riguardano la morte di Gisella Orrù è stato fatto sparire da qualcuno che sa veramente quello che è successo? Non lo sapremo mai, intanto il resto dei personaggi di questa vicenda come Pintus e la Pau sono morti, mentre la famiglia di Gisella si è trasferita su nel nord Italia aspettando una verità che forse non sarà mai svelata.

mercoledì 23 dicembre 2015

IL MISTERO DELLA DONNA DECAPITATA, IL CASO DI ANTONIETTA LONGO

Antonietta Longo
Questo è orrore vero e proprio, questa è una storia violenta e macabra che ha sconvolto l'Italia dell'epoca dove, un assassino rimasto ignoto per sessant'anni non ha avuto nessuna pietà per la sua vittima, questa è la storia di Antonietta Longo.
Era il 10 luglio del 1955, la televisione in Italia era presente da poco e la capitale si era svuotata per le vacanze estive; a Castelgandolfo due amici Antonio Solazzi di professione meccanico e Luigi Barboni sagrestano, decisero di fare un gita al lago Albano, si recarono verso le tre del pomeriggio al ristorante "La culla del Lago" dove presero un barca a remi a noleggio, dopo di che si diressero verso la riva di Acqua Acetosa. Dopo qualche centinaio di metri di colpi di remo, Solazzi avvertì un bisogno fisiologico e attraccò alla riva, scese dalla barca e si diresse verso un punto appartato, quando la sua attenzione fu catturata da qualcosa di strano ed allo stesso tempo di raccapricciante: il corpo completamente nudo di una donna che giaceva a terra con un foglio di giornale sul tronco, ma l'uomo guardando ancora più da vicino si accorse che al corpo mancava la testa. Antonio inorridito corse ad avvisare subito l'amico e i due presi dal panico scapparono via, tanta fu la paura e l'angoscia che i due amici avvisarono le autorità solo il 12 luglio vale a dire due giorno dopo il ritrovamento. Di chi era quel cadavere? Chi era quella donna?
Gli inquirenti avviarono subito le indagini sotto il comando del capo della omicidi Ugo Macera, all'esame medico che fu effettuato dal professor Antonio Carella il cadavere, oltre che ad essere stato decapitato presentava numerose ferite da arma da taglio sul ventre e sulla schiena, ma il particolare più macabro ed agghiacciante fu che alla donna le furono asportate le ovaie con un procedimento da chirurgo, successivamente dopo altre accurate analisi risultò invece un metodo definito "da macellaio" Il luogo del ritrovamento inoltre dette la piena certezza che la donna fu uccisa esattamente nel posto in cui fu ritrovata, lo testimoniava la grande quantità di sangue che aveva intriso il terreno. Gli investigatori si concentrarono su un orologio marca Zeus che era al polso della donna che risultò essere stato prodotto solo in centocinquanta esemplari e sulla pagina del giornale che risultò essere una copia del Messaggero trovato sul corpo che riportava la data del 5 luglio. Inoltre presero in analisi tutte le segnalazioni di donne scomparse in quell'arco di tempo e il risultato portò due nomi Anna Maria Brasca moglie di un pugile e Antonietta Longo una cameriera che prestava servizio nell'abitazione di un medico della capitale. La prima donna fu rintracciata e quindi esclusa, la vittima quindi non poteva essere altro che Antonella Longo. Per essere ancora più precisi e sicuri sull'identità della vittima, gli inquirenti rintracciarono e fecero arrivare dal paese di Mascalucia in provincia di Catania per il riconoscimento del corpo due donne, Grazia e Concettina Longo possibili sorelle della vittima; non vi furono dubbi, le due donne durante la fase del riconoscimento accertarono da due particolari: i mignoli delle mani sporgenti verso l'esterno ed il quarto dito dei piedi più lungho degli altri, che quel corpo straziato era della sorella, successivamente anche quell'orologio trovato sul polso della vittima diede ulteriore conferma sull'identità della donna segnalando che era un regalo che il nipote Orazio Reina le fece. Ma chi era esattamente Antonella Longo?
Un momento della ricerca nel lago della testa di Antonietta
Antonietta era una ragazza del paese di Mascalucia, un paese ai piedi dell'Etna dove era nata il 25 luglio 1925, figlia di artigiani rimasta orfana all'età di tre anni andò a vivere con le sorelle Grazia e Concettina ma viste le condizioni economiche precarie della famiglia Antonietta fu messa in un convento dove visse per degli anni. Quando abbandonò l' istituto ormai donna decise di cercare una vita migliore altrove; decise così di andare nella capitale dove avrebbe lavorato come cameriera presso la famiglia di un medico il dottor Gasparri.
Le indagini furono rivolte a far luce sull'esistenza della  donna ed alla ricostruzione degli ultimi giorni di vita della stessa; sappiamo infatti che la vittima qualche mese prima della scomparsa ritirò tutti i suoi risparmi pari a 331.000 lire che all'epoca erano un ingente somma di denaro e la depositò in una cassetta di sicurezza nella stazione ferroviaria di Roma Termini dove, furono ritrovate anche due valige con all'interno biancheria intima ed un corredo matrimoniale, ma non la somma di denaro, dove era finita? Successivamente la cameriera chiese alla famiglia datrice di lavoro un mese di ferie. Fu vista il giorno 1 luglio lasciare la sua abitazione verso le ore 22.00 e questo, suscitò l'attenzione del portiere del palazzo perché era un ora abbastanza insolita per Antonietta. Aveva acquistato un biglietto del treno per andare al suo paese di origine ma, invece di partire soggiornò in una pensione della capitale.
Fu ritrovata una lettera che la donna aveva scritto e spedito in data 5 luglio alla sua famiglia, nella quale sosteneva di aver conosciuto un uomo di qui era molto innamorata e corrisposta e che di li a breve si sarebbe sposata ( tra poche ore sarò sua ), inoltre sperava di dare la gioia di un nipotino ai suoi fratelli, ma chi era quell'uomo?  Poteva la donna tenere nascosto qualcosa ai suoi cari?  Quale poteva essere la causa scatenante di un omicidio così efferato? Per gli inquirenti il movente doveva essere cercato nella vita di Antonietta, che a loro dire aveva delle zone d'ombra. Le indagini frugarono nel privato della donna e portarono all'individuazione del suo probabile fidanzato, un uomo di nome Antonio, ma da numerosi controlli e interrogatori non emerse niente di rilevante e l'individuo fu messo da parte. Il caso di Antonietta Longo arrivato ad un punto morto, fu archiviato lasciando molti quesiti e supposizioni che ancora oggi sono presenti. Forse una gravidanza nascosta e poi scoperta da qualcuno che era contrario? Forse una questione di denaro? Da ricordare che la somma di denaro non fu mai trovata; il suo assassino non fu mai scoperto. Il corpo fu sepolto nel cimitero di Mascalucia suo paese natale nella cappella dedicata a San Vito e San Nicola di Bari. La storia consegnerà alla povera Antonietta il fatto di essere ricordata dalla cronaca nera come "La decapitata del lago di Bracciano" dove, probabilmente ancora oggi da qualche parte potrebbe trovarsi la sua testa.


mercoledì 2 dicembre 2015

IL MISTERO DEL POZZO, IL CASO DI ANNA MARIA "ANNARELLA" BRACCI

Anna Maria "Annarella" Bracci
Ci sono storie che vengono ricordate con orrore, storie che riescono a inorridire più di una generazione e che vengono tramandate come leggende del terrore, che rimangono impresse nella mente e che cerchiamo di accantonare in un angolo buio di essa perché, solo a pensarci i brividi corrono lungo la schiena come una locomotiva sulle rotaie. Questa è una storia di violenza, sogni premonitori, stranezze e lunghi silenzi, una storia che ha segnato la capitale e l'Italia dell'immediato dopo guerra, questa è la storia di Anna Maria Bracci.
Anna Maria Bracci era una ragazzina di dodici anni che abitava con la madre Marta Fiocchi separata dal marito e numerosi fratelli, nell'impervio e degradato quartiere di Primavalle a Roma, esattamente in via Lorenzo Litta lotto 25 scala L, era nata il 15 dicembre del 1937, cresciuta troppo in fretta a causa del contesto sociale in cui si era trovata a vivere, sembrava infatti più grande delle ragazzine della sua età. Aveva i capelli e gli occhi neri, era ubbidiente e aiutava la madre nei lavori domestici; un giorno esattamente il 18 febbraio 1950 sabato grasso, la madre la mandò a comprare del carbone e a prendere una bottiglia di olio dalla vicina di casa, ma non fece mai più ritorno. Nessuno la vide più, sembrava essere svanita nel nulla e come se non bastasse le ricerche iniziarono tardivamente, gli inquirenti si mobilitarono in lungo e in largo solo dopo che gli abitanti del quartiere protestarono in maniera sostenuta. Il 3 marzo 1950 in fondo ad un pozzo di via Torrevecchia vicino alla Pineta Sacchetti in aperta campagna fu trovato il corpo della povera ragazzina, senza gonna ne mutandine; il corpo presentava una profonda ferita alla testa inferta da una arma da taglio che fu cercata invano nel pozzo e nei dintorni, inoltre furono individuati segni di una tentata violenza sessuale. Un particolare che rese questo delitto ancora più agghiacciante fu, che i medici che effettuarono l'autopsia accertarono che Anna Maria cercò di difendersi e che venne picchiata, colpita alla testa, gettata nel pozzo ancora viva creduta morta dal suo aggressore e che probabilmente morì in un secondo tempo annegata nelle gelide acque. Le indagini iniziarono con un fatto quantomeno singolare, riguardante il nonno della giovane perché fu proprio lui a guidare polizia e carabinieri sul luogo del ritrovamento, raccontando di avere visto il pozzo in un sogno e di sapere che la nipote si trovava lì sul fondo; questa strana e macabra testimonianza gli fece intascare la somma di trecentomila lire che a quel tempo erano molti soldi, messa a disposizione dal barone di origini pugliesi Melodia, per chiunque avesse fornito notizie utili e attendibili agli inquirenti, ma tale fatto causò anche l'immediato inserimento del nonno nel registro degli indagati. Poco dopo, le indagini presero una svolta quando qualcuno parlò e rivelò che la ragazzina era stata vista il giorno della scomparsa seduta su un muretto, che mangiava delle castagne in compagnia di un uomo di nome Lionello Egidi. Ma chi era costui?
Il pozzo dove fu ritrovato il corpo di "Annarella"
Lionello Egidi era un amico della famiglia di Anna Maria, era sposato con due figli e di professione faceva il giardiniere, non solo qualche volta quando c'era bisogno aiutava la madre della ragazzina. Lionello venne quindi preso in custodia e condotto in carcere dove rimase per sette giorni.
Stando al racconto che rilasciò Egidi, furono giorni d'inferno, fu picchiato selvaggiamente al punto da renderlo irriconoscibile anche alla propria famiglia, successivamente al giudice raccontò di aver confessato l'omicidio di Anna Maria perché altrimenti le percosse a suo carico da parte degli inquirenti non sarebbero terminate. Il 18 gennaio 1952 il giardiniere venne assolto, ma poco dopo durante una festa sull'Appia Antica, Egidi molestò una giovane e fu condannato a tre anni e mezzo di carcere. Nel 1955 ebbe luogo il secondo grado del processo per la piccola Annamaria nel quale Lionello fu dichiarato colpevole e condannato a ventisei anni e otto mesi di reclusione. Sembrava che finalmente il responsabile dell'omicidio di Anna Maria fosse stato assicurato alla giustizia, ma arrivò un altro colpo di scena: il momento della Cassazione, che si limitò soltanto a controllare se tutte le fasi dell'intero processo fossero state svolte senza errori, stabilendo inoltre che la condanna arrivò anche dall'influenza negativa derivante dalle molestie perpetuate dal giardiniere sulla ragazzina dell'Appia Antica, assolvendo così definitivamente l'imputato il 14 dicembre 1957. Lionello Egidi tornò in libertà tra i commenti al veleno di chi lo considerava colpevole e difeso invece da chi lo reputava innocente, fatto sta che pochi anni dopo nel 1961 il giardiniere vide di nuovo le porte del carcere spalancarsi per restavi altri cinque anni a causa di molestie, questa volta su un ragazzino.
Il caso di "Annarella" quindi rimase irrisolto, la povera adolescente oggi riposa da quel triste giorno nel cimitero del Verano nella cappella di Raniero Marsili dove, sulla facciata è stata appesa una targa che la ricorda come vittima della perversione umana. All'epoca lo stesso funerale, fu celebrato in maniera tale da rimanere ben impresso nella vita sociale del tempo, gli stessi funzionari del comune insieme alle alte cariche della polizia e a più di centomila persone accompagnarono il feretro trasportato da un cocchio bianco trainato da quattro grandi cavalli anch'essi bianchi, il tutto pagato dall'amministrazione comunale di Roma. Nel quartiere di Primavalle è stato creato un parco giochi per bambini che porta il suo nome, a dimostrazione del ricordo indelebile per le generazioni presenti e future di una giovane rimasta vittima di una losca figura che forse non ha mai pagato per il male inflitto a lei, alla sua famiglia e alla comunità intera rimasta inorridita da quanto accaduto.
Il cocchio con il feretro di  Anna Maria Bracci
Il corteo Funebre
Lionello Egidi

giovedì 26 novembre 2015

IL MISTERO DEL BOSCO DI ARCE, IL CASO DI SERENA MOLLICONE

Serena Mollicone
Questa è una storia brutta, segnata da depistaggi, omertà e fatti strani, che hanno contribuito a renderla ancora più intrigata e ambigua. Questa è la storia di una ragazza di appena diciotto anni che scompare in circostanze misteriose e ritrovata due giorni dopo in un bosco, ormai cadavere; questa è la storia di Serena Mollicone. Siamo ad Arce, un piccolo paese del frusinate, è il 1 giugno del 2001, quando Serena esce di casa per andare ad una visita medica dentistica, una ortopanoramica all'ospedale di isola del Liri fissata per la 9:50. La ragazza arriva all'ospedale esegue la visita e dopo torna indietro verso casa, dove non arriverà mai, perché da qui se ne perdono le tracce. Quel pomeriggio la ragazza aveva un appuntamento con il suo fidanzato Michele Fioretti il quale, non vedendola arrivare preoccupato allerta il padre di Serena Guglielmo. I due uomini cominciano a cercare invano la ragazza e arrivati alla sera il padre della ragazza si dirige dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Iniziano le ricerche da parte di famiglia, cittadini ed inquirenti, usufruendo anche di volantini con la foto della ragazza appesi a pali e pareti. Trascorrono due giorni di tormento ed apprensione, quando a mezzogiorno del secondo giorno di ricerche succede qualcosa: in un piccolo bosco di Fontecupa in località Anitrella a pochi chilometri da Arce, una squadra di volontari della protezione civile trova il cadavere della ragazza. Il ritrovamento viene definito macabro ed agghiacciante; il corpo giace sull'erba supino, con le braccia legate con il nastro adesivo e filo di ferro dietro la schiena, le gambe sono legate anch'esse con il nastro adesivo e filo di ferro all'altezza delle caviglie ed infine la testa è avvolta da una busta della spesa. Intorno al luogo del ritrovamento ci sono sparsi i libri della giovane, mentre risultano spariti lo zaino il portafogli ed un mazzo di chiavi. Effettuati i dovuti rilievi sul corpo della ragazza, viene eseguita l'autopsia presso l'ospedale di Sora. La perizia medico legale stabilisce che ad uccidere la povera ragazza dopo ore di agonia e sofferenze è stata l'asfissia, inoltre sulla testa di Serena c'è una ferita che indica un forte colpo. Chi ha ucciso Serena? Perché? Quale è il movente di questo barbaro omicidio?
Le indagini partono a trecentosessanta gradi e fin da subito accadono eventi strani, come quello del cellulare della ragazza che viene ritrovato in circostanze inspiegabili in un cassetto della camera di Serena quando, il padre lo aveva consegnato agli inquirenti, infatti durante la funzione funebre il maresciallo della stazione dei carabinieri del posto Franco Mottola preleva il padre della ragazza Guglielmo Mollicone portandolo via, successivamente si saprà che è stato un atto dovuto per una forma burocratica quantomeno insolita delle indagini. Può essere definito un depistaggio? I sospetti successivamente ricadono su un carrozziere del posto Carmine Belli che il 6 febbraio 2003 viene arrestato. Le prove a suo carico sono: il ritrovamento dello stesso tipo di nastro adesivo servito a legare Serena in una vecchia casa di proprietà del sospettato e la ricevuta della ortopanoramica effettuata quella mattina, rinvenuta dentro un cestino dell'officina dove lavorava. L'ipotesi è che Belli avesse dato un passaggio alla ragazza, i due fossero andati verso il bosco di Fontecupa e davanti ad un rifiuto della ragazza, il meccanico l'avrebbe colpita, stordita ed infine imbavagliata e soffocata.
Il 14 gennaio 2004, Belli viene assolto dalla corte d'assise di Cassino presieduta dal presidente Biagio Magliocca e quindi il meccanico dopo mesi di carcere viene liberato; assoluzione che poi sarà definitivamente confermata il 6 ottobre 2006. Ma allora chi è il colpevole? Chi si è reso protagonista di questo orrendo delitto?
Le indagini procedono tra tante ipotesi e ricerche di nuove piste, ma di lì a poco succede un altro fatto starno e inquietante. C'è un brigadiere dei carabinieri che si occupa del caso, si chiama Santino Tuzzi il quale il giorno 11 aprile 2008 si uccide nella sua auto, sparandosi un colpo al petto con la Beretta di ordinanza. Perché? Perché un brigadiere si toglie la vita il quel modo? Voci dicono che Santino avesse problemi sentimentali e che quel suicidio fosse il risultato. Un attimo, aspettiamo un attimo è realmente così? Altre voci raccontano che Tuzzi avesse scoperto qualcosa di importante sul delitto di Serena, qualcosa di talmente importante e così indicibile da vedere nel suicidio l'unica soluzione. Anche la figlia del brigadiere conferma questa versione, non solo, la famiglia del militare crede fermamente che Santino sia stato minacciato da qualcuno di stare zitto e che le minacce siano state estese anche ai suoi cari. Ma cosa avrebbe visto o scoperto il brigadiere? Un fatto strano è che  Tuzzi due giorni prima di togliersi la vita, viene ascoltato come persona informata sui fatti, dichiara ai magistrati che il giorno della scomparsa, Serena Mollicone si trovava davanti alla caserma dei carabinieri, suonò il campanello e lo stesso Santino che si trova di servizio come piantone le apre la porta dopo avere avuto l'autorizzazione a farla entrare. Il brigadiere riferisce che tale autorizzazione gli fu accordata dal piano superiore dove si trovano gli alloggi del comandante di stazione maresciallo Franco Mottola dove vive con la moglie Anna ed il figlio Marco. Precisa inoltre che non sa esattamente se, quella voce che acconsente all'ingresso della ragazza sia del comandante o del figlio. Ma allora chi ha dato questa autorizzazione? Chi aspettava in quella casa Serena? Forse è in questo frangente che il brigadiere entra in contatto con la realtà che lo porterà a decidere di togliersi la vita. Girano voci che chi ha ucciso Serena, lo ha fatto per tapparle la bocca, ma a proposito di cosa? Si dice infatti che la ragazza sapesse qualcosa su un giro di droga nel quale sarebbe stato coinvolto Marco Mottola il figlio del maresciallo e che la ragazza avesse intenzione di denunciare il fatto. Un altro particolare strano, è un pacchetto di sigarette Marlboro Light che Carmine Belli dichiarò di aver visto comprare da Serena davanti alla stazione dei pullman il giorno della scomparsa; la ragazza non fumava, per chi erano quelle sigarette? Per qualcuno che in quel momento stava con lei? Altro fatto degno di nota è: il ritrovamento di licheni sulla maglia che indossava Serena identici a quelli presenti nel nuovo carcere mai aperto costruito vicino alla stazione dei carabinieri di Arce, la stessa stazione dove è entrata la ragazza. A distanza di anni nel 2011 vengono inseriti nell'elenco dei sospettati l'ex maresciallo Franco Mottola, la moglie ed il figlio Marco non solo, anche il fidanzato della ragazza di allora Michele Fioretti e sua madre Rosina Partigianoni. Ad oggi le indagini sul caso, sono indirizzate sul confronto del DNA già prelevato ai sospettati sulla ricevuta della ortopanoramica, rinvenuta nell'officina di Belli. Sono passati ben quattordici anni da questo orrendo delitto e la verità sembra ancora ben nascosta, l'assassino di Serena è rimasto impunito e sempre in circolazione, portando con se il mistero di quello che è realmente accaduto in quel bosco.

mercoledì 18 novembre 2015

LO STRANO SUICIDIO DI UN CALCIATORE, IL CASO DI DONATO BERGAMINI

Donato Bergamini
Difficilmente associamo lo sport ad eventi misteriosi, probabilmente questo caso esula dalla normalità. Questa è una storia oscura, che porta con sé bugie e sulla quale sono state fatte ipotesi che non hanno mai dato un riscontro ufficiale e che hanno sempre portato a sbattere contro la falsità, la verità sembra ancora lontana. Questa è la storia di un calciatore di successo che improvvisamente muore in circostanze misteriose, questa è la storia di Donato Bergamini.
Donato detto Denis aveva ventisette anni era nato ad Argenta ed era un calciatore, un centrocampista del Cosenza squadra del campionato di serie B, prima aveva giocato con la maglia dell'Imola e del Russi. La notte del 18 novembre 1989 il suo corpo venne ritrovato sull'asfalto bagnato della strada statale 106 Jonica nelle vicinanze di Roseto Capo Spulico sotto le ruote di un camion rosso, sul luogo era presente solo la sua ex fidanzata Isabella Internò e l'autista cinquantunenne del mezzo pesante coinvolto Raffaele Pisano. La versione raccontata dall'unica testimone e successivamente confermata da Pisano alla pattuglia dei carabinieri intervenuta sul posto, sarebbe quella del suicidio, Donato si sarebbe gettato dalla piazzola di sosta sotto le ruote del camion al suo passaggio per poi essere trascinato per una sessantina di metri sull'asfalto; perché? Quale poteva essere il motivo per giustificare il folle gesto? Secondo le dichiarazioni della ragazza, Bergamini si sarebbe suicidato a seguito del rifiuto da parte della ex fidanzata di lasciare l'Italia con lui per andare all'estero, visto che voleva chiudere con il mondo del calcio. Da subito la versione del suicidio sembrò poco credibile e alquanto fantasiosa per alcuni particolari che evidenziarono delle incongruenze. Lo stesso padre Domizio, la sera stessa del riconoscimento della salma del figlio rimase perplesso e espresse forti dubbi sulla dinamica dell'incidente e delle condizioni in cui versava il cadavere. Inoltre dopo l'incidente si venne a verificare una catena di strani eventi. Sembra infatti che già dai rilievi eseguiti sul posto dalla pattuglia dei carabinieri, vi fossero delle approssimazioni. I vestiti del povero calciatore anziché essere restituiti alla famiglia furono bruciati nell'inceneritore situato a poca distanza dall'ospedale, perché?  Poi c'era il corpo di Donato che non sembrava avere lesioni compatibili con un trascinamento come quello descritto dai testimoni e dai rilievi. Le ossa del calciatore infatti erano intatte, non risultava esserci nessuna frattura né agli arti superiori che inferiori e neppure al tronco; le uniche ferite erano una piccola abrasione sul lato sinistro della fronte ed un trauma da schiacciamento con conseguente eviscerazione sul fianco destro. Non solo, inoltre alcuni oggetti personali furono riconsegnati alla famiglia, vale a dire l'orologio, la catenina da collo e le scarpe, i quali risultarono essere presso che intatti; questo particolare risultò strano dal momento in cui un camion dal peso di varie tonnellate con le sue grandi ruote gli aveva trascinati per circa sessanta metri sull'asfalto.
L'orologio di Bergamini dopo l'incidente
L'auto di Bergamini una Maserati di colore bianco con capotta nera fu lavata subito il giorno dopo. Perché? Forse per eliminare delle prove che potessero far crollare l'ipotesi del suicidio? Giravano strane voci in quel periodo su quella macchina, come quella che servisse per il trasporto  di droga da parte di terzi, occultata in appositi sottofondi dei quali lo stesso giocatore ne ignorava l'esistenza. Un altro fatto inquietante avvenne un anno dopo il presunto suicidio; la morte di di due magazzinieri del Cosenza in un incidente stradale sullo stesso tratto di strada la 106 Jonica accaduto in circostanze ancora oggi poco chiare. I due magazzinieri secondo alcune voci riportate dall'ambiente di spogliatoio, sembravano essere a conoscenza di ciò che effettivamente era accaduto al calciatore quella tragica sera di novembre. Cosa sapevano di tanto importante? Altre ipotesi gravitavano attorno a quella morte sospetta, una tra queste era la teoria che avrebbe visto coinvolto l'ambiente del calcio scommesse. Nel 1990 fu eseguita una perizia tecnica dal prof. Francesco Maria Avato, la quale stabiliva che Bergamini era già morto al momento di essere travolto dal camion, solo in un secondo momento il corpo sarebbe stato schiacciato dalle ruote del pesante mezzo, al fine di mettere in scena un falso suicidio; questa perizia però stranamente non fu presa in considerazione e andò dimenticata, inoltre il professore non venne mai ascoltato, nè durante la fase probatoria né durante il processo nei confronti dell'autista Raffaele Pisano imputato per omicidio colposo. I giudici confermarono la tesi del suicidio e Pisano fu assolto. Oltre alla perizia del prof. Avato però, nel 2012  ne fu depositata un'altra, effettuata dal Ris di Messina che confermò quella del professore. Ma perché inscenare un suicidio? Chi avrebbe avuto interesse a fare tutto ciò? Quale sarebbe stato il movente? Una delle piste che fu seguita e tenuta in considerazione più di altre, fu quella di un delitto a sfondo passionale; infatti  nel luglio del 1987 la sua ex fidanzata Isabella aveva abortito appena dopo aver compiuto la maggiore età in una clinica londinese. L'anno successivo il calciatore avrebbe intrapreso dopo la fine del rapporto con la Internò una relazione con un altra donna. Il compagno di squadra Michele Padovano riferì di quanto l'ultimo giorno di vita, Donato fosse agitato e di come lasciò di fretta il luogo del ritiro del Cosenza. Quel giorno infatti, nel primo pomeriggio Bergamini ricevette una strana telefonata e successivamente si allontanò, qualcuno affermò che si dovesse incontrare proprio con Isabella Internò. Una storia questa con tanti interrogativi e lati oscuri, ma che la famiglia del calciatore ha sempre affrontato senza mai smettere di cercare la verità, seguita dal l'avvocato Eugenio Gallerani; facendo leva anche su alcune fotografie che annullerebbero in maniera palese l'ipotesi del suicidio: sono immagini forti che dimostrano come il corpo del giovane calciatore giaceva intatto ancora sull'asfalto bagnato e quindi sporco e con gli abiti puliti, con addirittura i calzini sempre alzati, cosa veramente impossibile dopo un incidente del genere. Nel 1994 la questura di Cosenza avviò delle indagini parallele a quella della procura di Castrovillari, perché convinta che ci fossero dei particolari importanti poco credibili. Nel 2011 l'inchiesta fu riaperta per il reato di omicidio volontario dal procuratore capo Franco Giacomantonio ed il pm  Maria Grazia Anastasia, per cercare di fare luce su sui lati oscuri della vicenda. Gli ultimi fatti, riportano una imputazione per concorso in omicidio per la ex fidanzata di Bergamini e favoreggiamento per l'autista del camion Raffaele Pisano, ma nel 2014 la procura di Castrovillari ha chiesto l'archiviazione del caso per entrambi gli imputati. Sono passati ventisei anni da quel triste giorno, troppe bugie sono state dette e troppe ombre lasciate volteggiare su questa storia che sembra essere ancora lontana dal traguardo della verità. Nessuno però ha dimenticato Denis, né i suoi tifosi che gli hanno dedicato la curva sud dello stadio di San Vito, né la famiglia che ha combattuto e tuttora combatte per sapere quello che effettivamente e successo quella maledetta sera, neppure i numerosi amici e il mondo sportivo specialmente il calcio, che lo ha fatto conoscere come un calciatore di talento e come ragazzo pieno di vita con una rosea carriera davanti a se.
La Maserati di Bergamini

venerdì 13 novembre 2015

IL MISTERO DELLA SCOMPARSA DI ALESSANDRA SANDRI

Alessandra Sandri
Questa è una brutta storia caratterizzata da torbide sfaccettature, sequestri, omicidi e occultamenti che tesse la sua tela enigmatica nell'orrendo ambiente della pedofilia, dura ormai da quaranta anni e vede protagonista una bambina  che di anni ne ha appena undici. Tutto ha inizio nella periferia di Bologna il 7 aprile 1975 quando, una ragazzina viene vista per l'ultima volta dalla madre alla fermata dell'autobus di via Farini. Ma chi è quella bambina? Quella ragazzina si chiama Alessandra Sandri, in famiglia però mamma Marisa e papa Nerio la chiamano Sandra; ha undici anni e proviene da una normale famiglia italiana. Come tutte le mattine è diretta a scuola ma li, non arriverà mai. Quel giorno Sandra viene presa ed inghiottita da un fitto mistero di cui ancora oggi sappiamo pochissimo. Girano voci, che da un pò di tempo intorno alla ragazzina si aggirino degli uomini adulti, frequentatori del bar Cuomo di via Carissimi, situato nei pressi dell'abitazione di Sandra, i quali avrebbero avuto nei suoi riguardi attenzioni particolari. Un episodio chiave, avviene circa un mese prima della scomparsa della ragazza, quando un suo vicino di casa Ignazio Parentela registra su un nastro una loro conversazione, nella quale Alessandra parla di incontri avvenuti con alcuni uomini frequentatori del bar facendo nomi e cognomi. Forse questo è il movente dell'omicidio della piccola Sandra? Qualcuno le ha voluto tappare la bocca?
Sappiamo solo, che in base a quella registrazione nel 1982 furono processati e condannati a tre anni di reclusione per molestie nei confronti della piccola due uomini: Giorgio Fragilli e Franco Mascagni.
All'epoca della scomparsa di Sandra però gli inquirenti, batterono solo la pista dell'allontanamento volontario perché imputavano alla ragazzina un atteggiamento più disinvolto della sua età; ma i genitori della piccola a questo si sono sempre definiti contrari e non si sono mai dati per vinti, accusando chi svolgeva le indagini di essere stato troppo superficiale e di non avere mai seguito la pista reale, quella che forse era legata alla pedofilia.
Difatti giravano voci che Franco Mascagni passasse molto tempo con Sandra e addirittura che i due avessero una storia. Attualmente è stata ascoltata la testimonianza di una donna all'epoca amica della ragazzina la quale riferisce, di alcune confessioni fatte da Sandra su un uomo che in macchina la portava nella zona di Pianoro. Successivamente un'altra fonte attendibile, parlava di due uomini frequentatori di un casolare nei pressi della zona di Ponticella. Nel 2010 il caso della piccola Sandra è stato riaperto dai pm Walter Giovannini e Giampiero Nascimbeni i quali, arrivano alla conclusione che probabilmente ad uccidere la piccola sarebbe stato proprio uno dei due condannati nel processo del 1982 vale a dire Franco Mascagni, morto nel 1990.
Questa storia sembra essere legata a filo diretto con un'altra scomparsa, sfociata forse in un delitto commesso probabilmente dalla stessa persona; quella di Remo Soravia Gnocco, svanito nel nulla il 28 febbraio 1979. Ma chi è costui?
Franco Mascagni
Remo è un frequentatore assiduo del bar di via Carissimi, ha una fidanzata e avrebbe testimoniato nel processo nel quale furono condannati Fragilli e Mascagni. Si dice che Gnocco sapesse quello che era effettivamente accaduto a Sandra e inoltre conoscesse personalmente il colpevole. La sua fidanzata racconta che, Remo negli ultimi periodi fosse molto nervoso, spaventato da qualcuno e che parlasse spesso della ragazzina. Testimoni riportano che, due giorni prima della scomparsa, nel corso della serata, l'uomo avrebbe avuto una discussione al bar con un altra persona informandola di essere al corrente  della vicenda e intimando di parlare dell'accaduto; dopo di che i due si sono allontanati insieme, da quel momento in poi nessuno avrebbe più visto Remo. Dopo qualche giorno sul ponte della Ponticella fu ritrovata una giacca contenente la carta di identità di Gnocco. Questa persona poteva essere il colpevole della scomparsa di Sandra? Mascagni forse? Non lo sappiamo, ma a distanza di anni la fidanzata di Gnocco che, non ha mai smesso di cercare la verità racconta di una lettera anonima, ricevuta qualche giorno dopo la scomparsa del compagno, nella quale vi era scritto di lasciare perdere le ricerche dell'uomo altrimenti sarebbe successo qualcosa di brutto ai suoi figli.
Ad oggi l'inchiesta che all'epoca dei fatti fu archiviata come probabile suicidio, sarebbe stata riaperta grazie ad una lettera anonima recapitata agli inquirenti, la quale faceva luce sulla pista dell'omicidio e che il corpo dello scomparso sarebbe stato occultato vicino al casolare in zona Ponticelli, dove qualcuno ipotizza sia stato nascosto anche quello di Sandra.
Tante ipotesi quindi su queste due storie parallele intrecciate tra loro che lasciano sempre aperti molti interrogativi su queste torbide vicende.